Ma l'arte di Avati - probabilmente la più sottovalutata di tutto il cinema italiano del dopoguerra - non è tanto quella che nasce dal fascino della costruzione corale (il film è breve, non privilegia nessun personaggio, e non completa alcun ritratto psicologico): in questo senso STORIA DI RAGAZZI E DI RAGAZZE non conduce lo spettatore a saperne di più di ciò che già sapeva all'inizio. Piuttosto, quella di saper parlare dell'infinitamente grande partendo dall'infinitamente piccolo.

Come in quell'elefante argentato (argentato di fuori, ma di cartapesta all'interno) che accompagna l'azione del film fin dalle prime immagini dei titoli di testa, è al tempo stesso il bagliore misero di un'epoca (il ventennio del fascismo che il regista non aveva mai affrontato) e la luminosa umiltà degli individui che il cinema di Avati mette e confronto. Un confronto dettato, più che dall'analisi dei comportamenti, dalla delicatezza poetica dello sguardo: spesso in tempo quasi reale, il suono in diretta, il montaggio attentissimo ai ritmi di un bianco e nero evocatore, la cinepresa che si sofferma sugli oggetti come sugli individui, sui rumori come sui sentimenti in una sorta di rituale scandito dal tempo e dal ricordo, che finisce per conferire agli avvenimenti più umili una loro commovente universalità.